Il lutto: un “rito di passaggio” anche per chi resta

di Vittoria Stilo









Il lutto è positivo. E’ il modo per muoversi attraverso le transizioni della vita.”
Rick Warren, pastore protestante statunitense

E’ condivisa da molti autori, psicologi e non solo, l’idea del lutto come transizione, rito di passaggio, non solo per la persona che ha appena lasciato la vita terrena e si è avviata verso il suo ultimo viaggio, ma anche per chi resta: è lui, infatti, che vive il dolore provocato dall’assenza di una presenza che è stata significativa.
Più si è aiutati dal contenimento dell’altro, più facilmente si supera e si elabora la sofferenza che consegue a una perdita. Ecco perché è funzionale, in quelle culture dove ancora viene praticato, il rito del lutto inteso come accompagnamento alle famiglie che hanno subito la perdita, affinché in compagnia possano più facilmente sfogarsi  e quindi accettare l’accaduto. Chi non vive questo passaggio è probabile che faccia più fatica a rientrare nei ritmi della quotidianità, perché ha meno occasioni di sfogo, meno possibilità di elaborare e trasmutare i propri sentimenti.  
Quanto è salutare riuscire a manifestare il malessere  contenuto dalle persone care;  quanto fa bene alla mente ricostruire la memoria di chi è appena dipartito attraverso il confronto con i ricordi che gli altri portano di lui, con testimonianze affettive che riempiono.
La transizione sta proprio in questo passaggio dal trauma iniziale all’elaborazione della sofferenza che ne consegue. Tutte le emozioni che si vivono, rabbia, senso di colpa, tristezza, possono essere molto travolgenti in principio e far pensare che non andranno più via. Ma sono reazioni normali che bisogna darsi il permesso di vivere, accettandole come parte inevitabile del processo. Fa una notevole differenza avere uno spazio di elaborazione, rispetto a non averlo: il rischio, in questo caso, potrebbe essere quello di cadere in un periodo più o meno lungo di depressione.
Freud ha definito il lutto come uno shock emotivo, un evento traumatico che lascia una ferita profonda, sottolineando l’importanza di affrontarlo correttamente per non correre il rischio di incorrere in un blocco emotivo che toglie sapore e significato alla vita.
Anche Jung si è occupato di questo tema con estremo interesse. Ha scritto una lettera significativa in risposta a una donna che gli aveva chiesto consiglio sul come superare il dolore per la morte della persona amata. Eccone un estratto:
“Per la nostra salute mentale sarebbe un bene non pensare che la morte non è che un passaggio, una parte di un grande, lungo e sconosciuto processo vitale: sia nei giorni dolorosi nei quali precipitiamo per la perdita di chi ci è caro, sia nei giorni tristi nei quali siamo sorpresi dal pensiero della nostra stessa morte. La nostra morte è un’attesa o, se vuole, una promessa che non è mai compiuta. Per questo essa non ci impone di vuotare la nostra vita ma piuttosto di procedere alla sua pienezza. Mentre la morte ci toglie ciò che ci è più caro, al tempo stesso ci restituisce a ciò che ci è più prezioso.
Il lutto allora, come dice Rick Warren, può divenire un’opportunità per dare l’addio alla persona che ci ha lasciati, dirgli tutto ciò che non si è stati in grado di esprimere quando era ancora in vita, per poi lasciarla andare. La perdita ci insegna che il compito che abbiamo è sempre quello di portare avanti la vita, che non si arresta mai, neanche nel dolore più grande, e ci invita a farlo nel modo più dignitoso possibile: continuare a vivere con fiducia, anziché bloccarsi in una dolorosa contemplazione del passato. La vita questo richiede: continuare a viverla, nonostante tutto, cercando di trovare in essa sempre nuovi significati.  

Bibliografia:

S. Freud (1978), Melanconia, Torino, Bollati Boringhieri.

W. McGuire – R.F. C. Hull (1995), Jung parla. Interviste ed incontri, Milano, Adelphi.

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