Cura di sé e paradigma dell’esercizio nei mondi antichi

di Costanza Ceccarelli

Ci sono figure del pensiero che nella filosofia antica hanno avuto un’importanza capitale e che si sono continuamente intersecate in un rapporto di interdipendenza. L’una, esprimibile come esortazione alla “cura di sé” (heautou epimeleisthai), è la scaturigine  di quel motto “Conosci te stesso ” (gnōthi seautón) che svettava sul tempio delfico e che Socrate aveva eletto a precetto filosofico fondamentale. Platone chiarirà da subito come il “Conosci te stesso ” trovi il suo senso unicamente in relazione alla cura di sé, la cui importanza si espliciterà ancora di più nelle successive tradizioni ellenistica e latina (1) . L’altra è la domanda che rappresenta il cuore dell’etica greca, parimenti cruciale nei testi antichi sud-asiatici sugli stili di vita definiti nei termini di metodiche yoga: «come dovrei vivere?» (2).  
Questa congiuntura tra filosofia, cura e stile di vita mostra come le radici del pensiero filosofico siano immerse nell’idea di cura, in particolare “cura di sé”, intesa come capacità di modificarsi, di effettuare delle operazioni su di sé al fine di accedere a un modo di essere  e a  un sapersi muovere nel mondo conseguente. Un’etica del sé come pratica di libertà, strettamente connessa a un concetto  di salute intesa nei termini di capacità di istituire attivamente delle norme di vita, anziché fissare passivamente limiti acquisiti nel rapporto col mondo.
Cogliere il pensiero filosofico antico quando si esprime come formazione e terapeutica della soggettività e degli stili di vita, ripensarlo per l’oggi (3), necessita di pensare alla  filosofia come pratica, come esercizio mirante allo specializzarsi nella capacità di definire una propria arte dell’esistenza . Costruzione di sé ed esercizio si danno , negli scenari filosofici antichi, come figure chiave dell’idea di filosofia complementare alla medicina, come promotrice di salute al di là del sopra-vivere  in vista del saper-vivere. Sulla spinta degli eventi attuali, potremmo dire che l’antico ritorna, nel momento in cui ci è richiesto di ripensare la relazione tra “forma” e “vita”, intendendo per “forma” un concetto presente nella fase fondativa della filosofia greca, così come nelle fonti testuali degli eserciziari sud-asiatici delle metodiche yoga. Paradigma dell’esercizio di sé dei mondi antichi pare essere la convinzione che esista un buon modo di vivere, una buona “forma” della vita, da cui lo stimolo alla trasformazione, al cambiamento, come scaturigine  della domanda “come dovrei vivere?”. Domanda il cui motore è, evidentemente, una sensazione di insufficienza, un sentimento di inadeguatezza, che, nel cercare la propria compensazione, attesta anche la peculiare cifra dell’umano: la capacità di distinguere tra il modo in cui ci si trova di fatto a vivere e almeno una condotta di vita alternativa, che potrebbe, in linea di principio, rivelarsi migliore. Nel tempo dello scrutinio e della cura di sé albeggia la domanda “come dovrei vivere?”.
In epoca ellenistica e latina e nel periodo aureo del pensiero sud-asiatico  tra il IV secolo a.C. e il III secolo d.C., le tradizioni filosofiche testimoniano un crescendo di proposte metodiche, in risposta alla necessità di definire i criteri d’esercizio per imparare a muoversi in modo diverso, dotati di un equipaggiamento idoneo ad affrontare le contingenza  della vita, attraverso tecniche di cura della soggettività e della vita . Pur nelle  diversità dei contesti, questi mondi mostrano una comune sensibilità nella presa d’atto di come l’umano si affacci alla vita impreparato e di come si eserciti in strategie di compensazione del disagio originato dalla dipendenza dalla cura altrui, necessaria causa del ritrovarsi di fatto a vivere in una condizione non scelta o scelta solo in parte. Comune sensibilità anche nell’individuare le difficoltà del passaggio ad una condotta  alternativa. L’umano che vuole attraversare il guado del cambiamento si trova gravato dal peso del già stato , trattenuto nel campo gravitazionale generato dalle abitudini acquisite  che ripiega lo spazio delle sue possibilità verso la reiterazione di traiettorie già percorse. Nel cambiamento, inoltre, la posta in gioco non è mai puramente individuale. Foriera di inedita libertà, la domanda “come dovrei vivere?” è carica di un’indeterminatezza che la rende compatibile con le visioni più sovversive, così come col più cieco conformismo. Leggi scritte e norme della consuetudine, sistemi educativi e protocolli medici, mode e modelizzazioni  dei corpi, tutti possono considerarsi come altrettanti  legittimi tentativi di dare risposte collettivamente vincolanti a quella stessa domanda, attraverso l’organizzazione di sistemi di cura indirizzati alla normalizzazione del soggetto.
Tecniche di cura accompagnate da precauzioni d’utilizzo caratterizzano perciò i mondi d’esercizio degli antichi, intese  a determinare le condizioni di una trasformazione del soggetto, affinché il suo potersi costituire come tale si dia  nei termini di etica personale , attraverso cui  costituirsi soggetto del proprio agire.

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