Un desiderio che non sia anonimo

di Barbara Gubinelli


Il termine “bisogno” deriva dal franco “bisunnia”, ossia “cura”. Tuttavia, non è della cura intesa come soddisfacimento dei bisogni fondamentali che si sostanzia la vita dell’essere umano, ma v’è la necessità di considerare un altro versante.  Infatti, è solo rispetto al posto che occupa nel desiderio dell’altro che il bambino potrà soggettivare la propria esistenza.
Le riflessioni sviluppate attorno ai temi della procreazione e dell’adozione spingono a considerare che il legame di filiazione non sia qualcosa di già dato: esso deve essere ogni volta costruito, inventato.[1] “Che sia nato da un padre o da una madre noti, oppure da un padre sconosciuto o da una madre sconosciuta, il soggetto, in tutte le situazioni, ha comunque la possibilità di avvenire”[2], e ciò che è decisivo per il bambino è la condizione dell’incontro con il desiderio.
           Ogni bambino, infatti, deve essere in qualche modo adottato, deve essere il “figlio adottato di un desiderio”[3].
Lacan sottolinea a tal proposito come le funzioni della madre e del padre si valutino secondo una necessità, che è quella che implica per il bambino “la relazione a un desiderio che non sia anonimo”[4].
Com’è che questa relazione si rende possibile? Per il fatto che le cure materne “portano l’impronta di un interesse particolarizzato, fosse solo tramite le proprie mancanze[5].
Ciò significa che quanto la madre dà, il contenuto dei suoi doni, il cibo, vengono in secondo piano rispetto al desiderio che, attraverso di essi, si esprime. “Il bambino non vuole tanto ricevere il cibo giusto al momento giusto, quanto essere nutrito da qualcuno a cui fa piacere farlo”[6]. Ci deve essere piacere da parte della madre nel vestirlo o nel fargli il bagnetto, altrimenti si tratta di una procedura senza vita, inutile e meccanica[7], come sottolinea Winnicott.
La madre, in particolare, va al di là della domanda di soddisfazione del bambino. Non risponde subito con un oggetto del bisogno, ma si fa interrogare dal bambino, dal suo essere singolare. L’umanizzazione del desiderio si rende possibile nella misura in cui la madre riesce a fare spazio a un certo non-sapere, quando sa inventare qualcos’altro rispetto a ciò che ha da dare al bambino, qualcosa che sia calibrato sul desiderio particolare del bambino stesso. Ella, al di là dei beni che dispensa, fa “dono di ciò che non ha, cioè quel che si chiama il suo amore” [8].
Non si tratta, dunque, di dono dell’oggetto o della solerzia nel rispondere al bisogno, né di applicare una buona pratica. Nella cura è in gioco il riconoscimento del soggetto, del suo essere irriducibile e irripetibile.
L’interesse particolareggiato nella sua tensione verso ciò che più vi è di singolare e unico nel bambino ne riconosce l’alterità. Il desiderio della madre non collima con la spinta divorante e onnipotente, ma rende operativa la propria mancanza, non solo come apertura rispetto a un certo non-sapere di cui parlavamo, ma anche come spazio generativo di un desiderio che non è mai saturabile completamente dal bambino. Ciò significa che le cure nelle quali la madre si prodiga non la distolgono dal desiderare in quanto donna.[9]
“Del padre: per il fatto che il suo nome è il vettore di un’incarnazione della Legge nel desiderio”[10]. “La vera funzione del Padre è quella di unire (e non di opporre) un desiderio con la Legge”[11]. Il padre sostiene dunque un’incarnazione della Legge nel desiderio: la sua funzione non si riduce all’interdizione piuttosto essa rappresenta la condizione perché il soggetto possa avvenire nel suo singolare desiderio. Desiderio del quale il padre riconosce e supporta la vocazione nella sua dimensione di unicità.
            Ciò in cui si può sperare, per il soggetto, è quindi un buon incontro con un adulto, genitore o sostituto, che gli possa fornire il desiderio che lo farà vivere.
Occorre, però, in primo luogo che le cure di chi si prodiga per lui portino la traccia di un desiderio. Un desiderio che non sia anonimo.


[1]ANSERMET FRANCOIS (2004) Clinica dell’origine. Il bambino tra medicina e psicoanalisi, Milano,Franco Angeli.
[2]Ibidem
[3]Ibidem
[4]LACAN JACQUES (1969), Due note sul bambino, in “La Psicoanalisi”, n° 1, Astrolabio.
[5]Ibidem
[6]WINNICOTT DONALD, (1949), Il bambino come essere che si sviluppa autonomamente in ABRAM J., (2002), Il linguaggio di Winnicott, Milano, Franco Angeli.
[7]Ibidem
[8]LACAN JACQUES (1966) La significazione del fallo, in Scritti, vol II, Torino. Einaudi (2002).
[9]MILLER JACQUES-ALAIN, Il bambino tra la donna e la madre, Comunicazione fatta nel contesto del primo Convegno Svizzero della Scuola Europea di Psicoanalisi, organizzato a Losanna l’1 e 2 giugno 1996 dal Circolo di Ginevra e dal Circolo di Losanna. Testo pubblicato in Filum, 14.
[10]LACAN JACQUES (1969), Due note sul bambino, in “La Psicoanalisi”, n° 1, Astrolabio.
[11]LACAN JACQUES (1966), Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio nell’inconscio freudiano, in Scritti, vol. II, Einaudi, Torino 2002.

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