Fiducia nel non sapere

di Daniela Di Pinto

“… la velocità dell’amore,
del silenzio, dell’umiltà, della vulnerabilità,
è qualcosa che l’uomo non ha misurato[1]”(Vimala Thakar)

Alcune narrazioni di sofferenze sono spesso accompagnate da un surplus di dolore. Quel disagio ulteriore che nasce quando non si può comprendere totalmente quello che accade. Ci si sforza, si analizzano nel dettaglio le situazioni, si oscilla tra varie interpretazioni. Non capire diventa un’aggravante che incide notevolmente e non solo in un percorso terapeutico. Solitamente è necessario fare i conti con il non sapere che accompagna l’esperienza della vita e del dolore. Assomiglia ad una strada labirintica anche se apparentemente risultano chiare le connessioni tra dolore ed esperienze vissute. C’è una cornice che staglia il sottofondo del disagio. Una cornice porosa che accompagna l’elaborazione di alcuni vissuti. Sembra venir a mancare quella possibilità di comprendere pienamente. Come i vuoti delle tessere del puzzle che rimarranno mancanti, forse per lungo tempo, o parti di quello stesso rompicapo che non si troveranno mai. Pezzi come frammenti che stabilirebbero un senso per dare impatto ai significati. L’inesplorabile, la quota inesprimibile. Quello spazio e quel tempo in cui vengono a mancare le stesse parole, in cui il corpo sembra arrendersi, dove a volte nascono i sintomi. L’atmosfera può essere glaciale, lo ricorda bene James Hillman quando riprende il nono girone dell’Inferno di Dante: “Qui siamo intirizziti, raggelati. Tutte le nostre reazioni sono sospese, congelate. Questo è un luogo psichico della paura e di un terrore così profondo[1]…”. In tali frangenti non c’è spazio per accogliere il non sapere. Si cerca invano un appiglio a cui aggrapparsi. Non c’è una logica che tiene assieme le maglie della ragnatela. Il cammino è incerto e si fa zoppicante. Tali soste insegnano a essere cauti nell’approcciarsi alle proprie sofferenze, ad avere pazienza, e la stessa delicatezza andrebbe considerata per avvicinarsi alla quota del non conoscibile. Le esperienze di crescita, i percorsi evolutivi indicano che la sosta alla fermata del non sapere può far emergere un tempo per potersi vedere, percepire, riconoscere, sentire l’essenza, ascoltare l’incompletezza e forse anche nascere nuovamente. Spesso è preferibile misconoscere, invece si é vincolati a sostare nel non poter conoscere tutto quello che si sta vivendo. Fermi vis a vis con le possibilità del processo vivo del non poter conoscersi a fondo. Uno stallo con il confronto con tutto il desiderio di comprendere il mondo, gli altri e noi stessi. Un limite e allo stesso tempo un’occasione. Imparare a vivere potrebbe significare anche prepararsi a sopportare questo incontro. Dopotutto avventura deriva dal latino, adventura ossia “ciò che accadrà” che non è dato sapere a priori. Si cammina leggeri se nel bagaglio ci sono meno certezze cosi come quando si procede in salita l’ideale è non sovraccaricarsi. Assenza come leggerezza, frustrazione come condizione di confronto. Imparare “a tollerare di non sapere[2]” per sperimentare e apprendere a fidarsi di quello “scomodo sentimento dell’ignoranza[3]”. Un’occasione per invitarsi a rimanere discepoli del già conosciuto, dei nuovi apprendimenti e dell’inconoscibile. Apprendere dalle proprie stagioni a fidarsi del non sapere.  


[1] J. Hillman, 2003, “Il sogno e il mondo infero”, Adelphi Edizioni, Milano, pg 210.

[2] T.H.Ogden,1992, “Il limite primigenio dell’esperienza”, Ubaldini Editore, Roma, pg 19.

[3] T.H.Ogden,1992, Ibidem.


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