163 GIORNI

di Ilenia Dell’Aera

Mi ero accomodata su quel lettino con la stessa superficialità con cui mi sedevo davanti alla mia estetista per un’epilazione alle gambe.
Ma un utero non è un pelo.
Per cogliere la differenza mi erano occorsi centosessantatre giorni. Il bordo freddo di un lavandino. E un venerdì santo nel pieno della quarantena.
Jung lo aveva detto in tanti modi: l’obiettivo dell’esistenza umana non è la perfezione, ma la completezza. Ed io, che perfetta non ho mai cercato d’esserlo, ora ero più incompleta che mai. Avevo perso pezzi utili lungo il mio cammino.
Buchi neri in varie parti del corpo, tra i quali mi muovevo vedova, alimentando l’illusione di essere il centro di un universo. Senza sapere che ero solo un piccolo granello dentro una grande e universale macina di produzione e distruzione.
Il lavandino nuovo aveva una nuova altezza. E un bordo largo, accogliente. Un brivido aveva punto la mia pancia. La parte alta dell’addome, perché quella bassa era indifferente ad ogni tipo di relazione col mondo. L’esterno era estraneo e non la riguardava.
Ogni santo giorno di quei centosessantatre giorni l’avevo massaggiata, diligentemente, quella parte di addome, con una crema miracolosa. Una di quelle che aveva curato gli altri grand canyon sulla mia pelle. Cicatrici ormai appiattite, come un mare che si è arreso dopo tramontane vivaci.
E mai, in quei massaggi amorevoli e distratti, avevo sentito l’eco. Quel suono che beatamente si disperde nel buio, nel vuoto lontano, profondo.
Mi ero accomodata su quel lettino operatorio per estrarre utero e annessi. La prima borsa con cui noi bambine nasciamo, con la quale ci affibbiano una missione e, talvolta, una croce. Il futuro passerà da lì, da quelle borsette, riempiendole di grazia.
La mia non aveva mai ospitato nessuno. Era rimasta vuota, intonsa. Inerte. Come una cava.
Ero stata dura con lei. A volte confusa, ma mai irriverente.
Quando ho scoperto di averla, quella borsetta, era sempre Pasqua. Un altro venerdì santo, ma di trentacinque anni fa. Il battesimo del primo ciclo. La mia via Crucis. Appollaiata sulle gambe di mio padre, gli chiedevo perché quel fastidioso accidente capitasse proprio a me che mamma non volevo diventarlo. Perché l’idea più limpida, antica e profetica che ho avuto di me è che non volevo fare la mamma. Non mi interessava costruirmi così, né ero interessata a barattare con quella rinuncia una promessa di eterna giovinezza. Era un pensiero che non seduceva né il mio interesse, né il mio avvenire.
Tutta la vita è andata così: un patto di cristallo con i miei affetti e con chi lecitamente avrebbe potuto nutrire valide aspettative. Se l’amore non è mai stato un buon motivo per sposarsi, quale altro argomento allegorico avrei dovuto chiamare in causa per capovolgere una scelta così profondamente identitaria?
Non potevo nascere donna senza utero solo per il semplice fatto di sapere in anticipo che non mi sarebbe servito. Non potevo: è l’equipaggiamento d’ordinanza. Non puoi scegliere di farne a meno, preferendo un terzo rene, o un pancreas di ricambio. Te lo danno e basta. E poi le mamme ti spiegano che son tante le cose che succedono, laggiù. Alcune fanno rumore, altre faranno male, altre tanto bene. Ogni mese si agiteranno acque, che poi si fermeranno e poi, come le maree, guidate dalla luna, porteranno pace e terremoti. Ci farai i conti in vacanza, o durante gli esami più temuti. Quando meno te lo aspetti.
Già, perché laggiù c’è vita. Si muoveva la mia vita, malgrado me.

Centosessantatre giorni fa, lascio il mio utero e annessi, in un blocco operatorio milanese, un bunker senza luce e senza Madonne, con un odore inconfondibile: quello della paura.
Li lascio lì soli. Senza un saluto. Senza aver chiesto scusa, per non averli onorati. Senza aver chiesto per piacere, di perdonarmi. Erano sempre stati un cosmo autonomo, loro. Reazionari. Una sorte di controparte. Corrotta, fragile, incline alle tentazioni patologiche. Pensieri lunghi quanto gravidanze mi portavano dalla mia ginecologa con una frequenza costante. Più li ingaggiavo da vuoti, più loro pianificavano insurrezioni. Contrappassi. Fino a che un giorno un dottore mi dice che il mio utero non è affatto vuoto e innocente: si è elasticamente dilatato fino a contenere spugne degne di quattro mesi di gestazione. Fibromi multipli, gemelli di se stessi, avatar, si erano accampati lì. Una pianificazione orchestrata alle mie spalle. Senza un consenso. Senza un confronto.
Faccio ancora fatica a risolvere questa spirale perversa che, annodandosi in testa, ha reso ricci persino i miei capelli. Il mio corpo e la mia mente sono un dittongo? Assomigliano a quegli esseri che, pur avendo esistenze fisiche diverse, ma vivendo l’uno per l’altra, si fondono in una sola nota? O entrambi godono di partita Iva, e rivaleggiano a chi fattura di più e fa più Pil ? Si parlano? Si ascoltano? Si sarebbero scelti se non fossero stati destinati ad essere uno il contenuto dell’altro, l’uno la malta dell’altra? Il mio corpo e la mia psiche appartengono a culture antropologiche divergenti. Segni zodiacali inconciliabili. Un contraddittorio genetico. Forse è per questo che per fare un figlio servono famiglie intere, cospicue generazioni materne e paterne. Per farne sintesi improbabili, e tuttavia promettenti per la follia umana e per una selezionata riproduzione della specie. Per poi lasciare al daimon, di ellenica memoria, il seme della specialità dei destini e dei talenti.
Quanta poesia in quell’organo, che lasciavo a mille chilometri da me, senza neppure essermi voltata indietro per un ultimo saluto. Il cenno di una mano. Una preghiera.
Con educata disinvoltura riusciamo ad essere grati solo a ciò che ci è stato utile e nobilitiamo l’utilità a categoria superiore delle premesse umane. Il mio utero e i suoi vicini di casa non mi erano stati utili. Ciò nonostante avevano profondamente condizionato la mia vita. Erano stati disturbatori tutt’altro che inutili. Eppure io li avevo licenziati, senza un solo pensiero, come non fossero mai esistiti. Ero tornata in gran forma. Avevo ripreso il governo della mia vita. Distribuito assorbenti alle mie cugine e quasi organizzato un party della liberazione, con bollicine e cotillon. Se non fosse stato per quel venerdì santo in cui, alzando la testa dal lavandino e stringendomi tra le mani quel vuoto fitto e vivo laggiù, mi sono chiesta se fosse arrivato il momento di rivelarci, in silenzio, qualcuna delle bugie con cui io e lui ci eravamo tenuti a bada.

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