Berkun Oya “Bir Baskadir”

di Daniela Di Pinto

Siamo a Instambul o in un luogo qualsiasi dove tutte le opposizioni culturali possono coesistere solo a fronte di una grande sofferenza. Svariati dolori s’intrecciano tra diverse generazioni, tra diverse culture, nelle stesse famiglie e attraverso l’incomunicabilità dei vari ceti sociali. La pellicola inizia riprendendo quei gesti, i rituali che creano uno sfondo di stabilità, di sicurezza. Meryem, la protagonista, quando entra in una delle case dove lavora come addetta alle pulizie, si toglie le scarpe, appoggia la borsa, riempie la lavastoviglie, rimette nel frigo il succo d’arancia. Fa sempre tutto nella stessa sequenza. C’è un tempo della ripetizione nel quale si consolida la prevedibilità delle azioni. Anche le continue benedizioni nei suoi dialoghi producono e creano un ritmo costante. La regolarità è dettata anche dal procedere imperturbabile delle musiche turche. In una stessa scena si aprono e si restringono più campi. Nel primo episodio le immagini di spazi aperti come una piazza o un ponte alto convergono dentro il gracchiare di un corvo nero, che a sua volta apre al vissuto depressivo della cognata di Meryem. Nell’angoscia di questa donna il tempo si ferma, fino a far sentire il suo struggersi nell’inspirazione di un tiro di sigaretta, o quando all’improvviso, in un episodio successivo, inizia a battere forte la testa contro il finestrino. Battute di arresto del tempo sono necessarie per ricongiungersi a se stessi, per attraversare e sentire il vero dolore. In queste circostanze il tempo si dilata, scorre piano, silenzioso o fa catapultare dentro uno stato di profonda tensione, soprattutto quando comunicare diventa impossibile. Nella lentezza di queste ciclicità, sono le rotture o gli stalli profondi a ridare un ritmo alle narrazioni e a far evolvere i personaggi. Ma c’è qualcosa dentro Meryem, in fondo alla dolcezza del suo sguardo e della sua voce, mentre si sistema pazientemente il velo, mentre prova ad affidarsi e nello stesso tempo a destabilizzare la sua analista e il proprietario della casa in cui lavora. Il suo sintomo, quindi, diviene sì un elemento per bloccare il tempo ma anche la possibilità reale di una trasformazione psichica.

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