di Mariella Viavattene
«Esiste qualcosa di più grande e più puro rispetto a ciò che la bocca pronuncia.
Il silenzio illumina l’anima, sussurra ai cuori e li unisce.
Il silenzio ciò porta lontano da noi stessi, ci fa veleggiare firmamento dello spirito.»
K. Gibran
Un giorno a settimana io e i miei scolari avevamo appuntamento con il silenzio. Li avevo abituati gradualmente ad apprezzarne il valore, paragonando le loro voci concitate a guerrieri con armi in pugno, pronti a darsi battaglia; così come avevo inculcato la necessità di parlare a turno per
evitare “l’incrociarsi di spade duellanti”. Cercavo sempre naturalmente di modulare la mia voce sui toni bassi, affinché servisse come esempio da imitare. Lo chiamavamo “ascolto del silenzio“, che non era però la semplice cessazione del chiasso, il raggiungimento della compostezza e dell’ordine.
L’obiettivo principale era accedere ad uno stato mentale divenendo più consapevoli del proprio esserci, per quanto la loro età potesse consentirlo, naturalmente. Altri obiettivi erano sottesi: acuire la sensibilità, essere in grado di ascoltare con maggiore attenzione la parola dell’altro, favorire l’osservazione, diventare più sensibile ai suoni/rumori, sapere ascoltare sé stessi, promuovere l’immaginazione e la creatività. La ricorsività dell’ attività implicava che i suddetti obiettivi si approfondissero via via durante tutto l’anno e lungo l’intero percorso scolastico. Senza trascurare che il silenzio è da considerare come cura contro il rumoroso caos che si è costretti ad ascoltare quotidianamente. Le mani poggiate sui banchi, gli occhi chiusi, modulando e ascoltando la respirazione; lentamente il silenzio s’impadroniva dello spazio attorno a noi. L’aula, orfana dei consueti rumori, veniva penetrata da tutte le voci e i suoni provenienti dall’ esterno: lo stormire degli alberi, lo scalpiccìo di alunni solitari lungo il corridoio, le voci alte e basse dei docenti, qualche volta il rumore ritmico di marcia, guidata da qualche anziana nostalgica maestra. Tutto arrivava ovattato, ogni suono era altro da noi. Invitavo spesso i miei scolari a farsi scendere nella mente immagini che a fine attività sollecitavo a verbalizzare: chi avesse voluto, per alzata di mano, avrebbe potuto raccontare le immagini viste. Tutta la scolaresca era invitata poi a trasferirli in un foglio attraverso il disegno. Immagini archetipiche, le più varie, hanno tappezzato le pareti dell’aula lungo gli anni d’insegnamento. Altre volte l’ascolto del silenzio rimaneva sullo sfondo per trasformarsi in ricerca linguistica: quali suoni, quali rumori abbiamo sentito nel silenzio? Ciascuno verbalizzava i suoni ascoltati, e quando non erano in grado, ecco il vocabolo nuovo, lo denominava, facendone spesso rivelare la valenza onomatopeica. Oggi qualche ex-alunno ormai grande, trovandomi su Facebook, mi contatta dicendomi: “Maestra, ora ho capito l’importanza delle attività che ci facevi svolgere in classe. Te ne sono grato”.
Bibliografia
PICARD M., (2007), Il mondo del silenzio, Ed. Servitum. Sotto il Monte BG.
BALDINI M., (1996), Le parole del silenzio, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo.